15 febbraio, 2015

Trilogia della steppa. Steppa. Vitobenicio Zingales


Trilogia della steppa (3)

Steppa

... ma erano viaggi necessari, indiscutibili e formidabili. Possedevano il caldo di quelle estati inqualificabili: e non accadevano, erano. Era quell'intreccio di lievito con l'imprudenza. Non occorrevano varchi o premure di bagagli ... era che gli succedeva tutto in tempo, ancor prima del farsi fuoco e traducevano quelle rare intenzioni, altrimenti segrete al tatto della vita. Raccontavano cose. Lasciavano cose. Inciampavano, eccome. Cadevano. Guarivano. Soprattutto restavano. Provvedevano all'incoscienza della gioia, come il pane sul mosto dell'inganno. Pazienti, risalivano il dolore e l'evenienza al ritardo di quella lunga tratta. Erano banchise e pensiline ... geometrie al bar di sotto, appuntamenti incerti, sindacabili opinioni e un calice di buon rosso pagato al banco. Ponevano viticci sul confine degli incendi, mescolando pretesti ai fiammiferi del danno. Facevano di corsa l'occorrente per stendere l'amore sulla brace di un orgasmo. Erano viaggi incompleti. Dappertutto. Niente: erano eterni.

Ed erano città fatte apposta: inossidabili, opinabili e irrinunciabili. Vangeli che duravano più di un laccio intorno a dio. Erano l'oltranza e l'abbandono, quel giocarsi a slancio per i si dice del chissà come faranno. Indicavano alle differenze la genesi del farsi rotta e lasciavano allo svincolo le eccellenze del pentirsi dopo. Erano l'oltraggio e la cura. Quel metro sopra, quel tocco raso, quel darsi di lama a scatto. Tango e schiena, più di un urto: erano punta e tacco all'ingresso del paradiso. Erano il viaggio, non la meta ... il frumento, la mappa, la pioggia intrisa al sole. Quel meravigliarsi al restare ... nottetempo, piano, sul traslucido di un mare a riva. Erano l'azzardo e il tentativo ... quel desiderio con destrezza in cassa ad un lascito di ricordi. Erano il vantaggio, la scommessa. La via più breve. La coscienza rotta. Il malgrado. Nulla: quel dio incapace.

... ma erano terre al passaggio, inspiegabili e memorabili. Possedevano le infanzie del rintocco, giocate agli anticipi della sorte. Era quel dosarsi al fermento del tentare il salto: l'incoscienza del diamante, la stoffa di un grido al vento, il tessuto di un silenzio goduto all'apice. Non intendevano l'esercizio al susseguirsi o il convenire al dedurre del titolo finale: erano la trama, il delitto, il castigo, l'inizio al ripetersi del sempre. Opponevano al ferro della regola la pelle del "loro grande sbaglio", elevando cieli immensi agli inferni del rimorso accanto. Erano la ferita e la salvezza. L'affacciarsi al mondo. L'oblio, la permanenza. Sbrigavano quel dubbio, soffocando l'acqua ai passi della sete. Ed erano la frase e il compiersi. L'altra parte al mondo ... il disagio di un confine mai elaborato. Lasciavano alla distanza la misura morale del solito compendio: erano invisibili, amanti e veri. Erano il privilegio, l'imperio. Il giardino "inconquistabile". L'insaziato cibo. Il lungo viaggio. Niente: erano il tempo del dio lontano.

Steppe.

Erano il senso della neve: quella dedica di tracce al passaggio di un addio.  

Vbz

10 febbraio, 2015

Trilogia della steppa, tundra. Vitobenicio Zingales

Trilogia della steppa (2)

Tundra

Fratello mio lontano,

mai avrei pensato che la strada alla "grande promessa" avesse potuto vivere quel tragico torcersi alla meta. Ma sono gli imprevisti ad alimentare il tono delle conseguenze e il viaggiatore, in quel trasferirsi di aspettative, dovrebbe premetterli all'inizio di ogni lungo cammino. Perché se è vero che il viaggio mostra il suo potere di sbilanciamento attraverso l'agire le fonti del mondo, è vero il suo contrario, allorquando il cuore del viaggio batte tra i santuari delle piccole stazioni di sosta. Lì sono quei "commerci sentimentali" che il viandante predilige alle necessità dell'anima, lasciando agli obblighi della memoria le pertinenze fondanti la regola del passo.

Adesso che tutto sembra perduto, e l'occorrente del viaggio trascorso disvive i cassetti di casa, la vita rimbalza quei ricordi che richiedono sgradevoli consuetudini di sforzi e immense biblioteche di appoggi. E se il viaggio dominava ogni genere di trasferta edonistica, richiamandosi a talune "muscolose eccellenze", qui, da questo calibro di nuovi accenni, le competenze transitano alle odissee del risveglio: la parte peggiore del risalire la vita dopo la rotta consumata ai "delitti". Amico mio, possiedo pezzi di levigata nostalgia e  del tutto involontarie malinconie, ma il vero assalto causa all'alba, quando occorrono tutti gli argini per esaltare il contrasto al degenere di quei malmessi sotterranei ... e credimi, l'assedio lavora alla sete, mordendo il respiro alla speranza. Ma di certi "viaggi", più delle cerimonie attese, nelle occasioni dell'assenza, manca quel celebrarsi antagonisti alla prudenza. È come se il vilipendio al passo innalzasse i concorrenti alla spietatezza del custodirsi invincibili e attribuisse al ricordo il potere di rendersi inguaribili al conforto della teoria più curante. È una questione che lega "quel perturbare l'indifferenza alla vita" a "quel modo incosciente di cercare la gioia": in altre parole, del viaggio perduto, manca la vertigine più "solennemente ardita": l'infanzia tenuta al faro della rotta.

Amico mio, è un silenzio che germoglia stanchezza: un'assenza di metodo al furore, quasi un raschiare pelle dalle fotografie di vecchi pretesti. Ricorda l'abbrivio al commettere, quel faticoso maschiare all'azzardo dopo il taglio buttato sulla gola. È un orrore che impone economiche tragedie, un insaporire di neve e di più che accettabili delitti. L'enormità del danno, adesso, risiede in quel tratto di coscienza che, smesso il tessuto delle feste, ricomincia l'ordito delle rampe ordinarie. E semmai ci si adoperasse ladri, il dolore, quel gendarme solerte alle spalle di ogni rivincita, eserciterebbe la propria virtù con chirurgica furia, escludendo ogni genere di separazione dai ricordi. Forse, di quel battere contabile di mondi, avrei dovuto comprendere contro quale secca urtava l'amore e ricavare, alla vela, quella geometria di svincoli, distratti, invece, dal concorrere alla crudeltà. Si, avrei dovuto commettere la morte al primo morso del dubbio, ma quando il viaggio infila oscure, quanto imparagonabili sintassi di boschi, perfino il più equipaggiato dei pellegrini lascia alla novità l'esercizio del nutrirsi. D'altronde, in molti vive il convincimento che la bellezza giunga a quel matematico compimento, non dalla parsimonia del passo, ma attraverso gli eccessi della chimica più predatoria ... e in fondo, sulla mia pelle, i tentativi al sublime mostrano ancora l'evidenza sconfortante di quell'assumersi "compiutamente" al mondo.

Mai avrei mai pensato che i confini del dimenticare avessero potuto cedere alle tentazioni di quella "maligna ossessione". Ma il viandante, più o meno accorto, nel viaggio al termine della meta, riconosce all'acciaio dei ricordi l'unica provvista necessaria ... e nulla importa se in quelle "città trascorse", malgrado la tortura patita, perduri la sediziosa assenza dell'oblio. Lo so, amico mio, risulterebbe sconveniente affermarne qui la forza, ma l'imperio giunge da quella distanza che, nel viaggio del proprio esistere, misura la convinzione del paradiso al mondo. E non c'è ferrovia che snodi l'universo come l'intendere del "viaggio irriproducibile": in esso sono la fortuna del divieto e l'angoscia a dio. 

Ora raccolgo i giorni da allerte interminabili, intensamente sottoterra e modestamente navigabili. 

La mia tundra è un sortilegio incapace di coscienza.

Ma sono libero, di restituirmi al viaggio.

Vbz


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